Omessa diagnosi di malformazioni fetali: quali danni?

Ci appariva interessante, dopo quasi un anno dalla sua pubblicazione, riflettere su alcuni passaggi di una sentenza della Corte di Cassazione, la n. 16892 del 25 giugno 2019, che ha fatto lungamente discutere su un tema molto delicato che nella giurisprudenza, evidentemente, cova ancora sotto la cenere. Ci riferiamo alla mancata diagnosi, da parte del personale medico, della presenza di malformazioni del feto, e delle conseguenze dannose risarcibili a seguito di tale negligenza.

Nel caso di specie affrontato dalla sentenza in commento, il bambino era affetto da ectromelia dell’arto superiore sinistro, e non vi era stata nessuna rilevazione della situazione di aplasia di cui era portatore il feto in sede di esami di ecografia eseguiti presso l’ospedale che seguiva la gestante.

La cassazione distingue due possibili danni conseguenti a tale negligenza medica: il danno da nascita indesiderata e il danno da violazione del diritto ad essere informati sulle condizioni di salute del concepito. Andiamo a vederli nel dettaglio.

 

Il danno da nascita indesiderata

Quando si parla di danno da nascita indesiderata si fa riferimento al danno che si arreca alla madre di un bambino nato con gravi patologie o handicap non conosciuti dalla gestante a causa di una omessa diagnosi prenatale da parte del medico che non ha individuato le malformazioni del feto e che, ove conosciute, avrebbero portato la madre ad abortire.La nascita di un bambino affetto da gravi patologie o handicap, infatti, è indubbio che possa provocare ai genitori sia un danno patrimoniale, consistente nelle gravose spese da sostenere per far fronte alla patologia del figlio, sia non patrimoniale, per il dolore e il turbamento psichico che può derivare dal crescere un figlio in queste condizioni. Questi danni, certamente meritevoli di tutela dovranno essere risarciti laddove la parte lesa adempia al proprio onere probatorio. Segnatamente la donna deve fornire la prova che non avrebbe portato a conclusione la gravidanza se il professionista avesse diagnosticato le anomalie o le malformazioni del nascituro. Tale onere può essere assolto anche attraverso presunzioni desumibili dai dati istruttori, come ad esempio: il ricorso al consulto medico per conoscere le condizioni di salute del nascituro, le precarie condizioni psico-fisiche della gestante, il cui accertamento tramite consulenza tecnica risulta fondamentale, pregresse manifestazioni di volontà della madre, in ipotesi, che lascino intuire di una propensione all’opzione abortiva in caso di grave malformazione al feto.

Vi è poi la tematica della prova della sussistenza di rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna. Infatti deve essere altresì provata la sussistenza delle condizioni necessarie per procedere all’interruzione della gravidanza dopo il novantesimo giorno di gestazione, consentita solo qualora risulti accertata la sussistenza di processi patologici, tra i quali quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinano un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna. Di recente la Corte di Cassazione ha ad esempio escluso che la mancanza di una mano del nascituro possa costituire una rilevante malformazione idonea a determinare un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna.

In realtà non si può stilare un elenco di patologie, ma si andrà a vedere caso per caso, in concreto, oltre all’anomalia del nascituro, la particolare sensibilità della madre.

Il danno da omessa acquisizione del consenso informato

La seconda “violazione” riguarda il non aver potuto esercitare un adeguato consenso sul prosieguo della gravidanza stante l’omessa informazione connessa alla mancata diagnosi. In altri termini l’omessa diagnosi da parte del professionista sanitario dell’anomalia o della malformazione del nascituro configura, per la Corte di Cassazione, la violazione da parte dell’esercente la professione sanitaria dell’obbligo di acquisire il consenso informato, il quale costituisce legittimazione e fondamento di qualsiasi trattamento. Il consenso del paziente, infatti, costituisce manifestazione di tutela del diritto all’autodeterminazione e alla dignità della persona. La donna, in altri termini, non è stata libera di scegliere se abortire o meno, quindi è proprio la stessa libertà di autodeterminarsi, che è stata lesa, a prescindere dalla scelta che concretamente avrebbe fatto.

 

In conclusione, sono due le tipologie di danno che possono essere risarcite in seguito a questa forma di malpractice: i danni, sia patrimoniali che non, derivanti dalla omessa diagnosi delle malformazione del feto che ha impedito di abortire, e il danno costituito dalla lesione del diritto all’autodeterminazione derivante dalla mancata acquisizione del consenso informato.

Da qualche anno invece la giurisprudenza esclude che possa essere risarcito iure proprio il diritto del soggetto, che lamenta una vita piena di disagi a causa delle proprie patologie non diagnosticate quando era un feto, perché il nostro ordinamento non riconosce “il diritto di non nascere” e perché, l’alternativa alla vita sarebbe la morte, procurata attraverso l’aborto.

 

 

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