Il fatto
Una ragazzina di 17 anni, a seguito di un incidente stradale, riportava postumi macro-permanenti che la consulenza tecnica d’ufficio medico-legale quantificava nella misura di 40 pt percentuali di invalidità.
In primo grado, veniva riconosciuto alla minore un risarcimento a titolo di danno biologico e di danno da perdita di chance lavorativa. I convenuti proponevano e vedevano parzialmente accolto l’appello avverso tale decisione, riformata in punto di riconoscimento del danno da perdita di chance: la Corte di merito riteneva insussistente il danno da perdita di chance per mancanze di prove in ordine alle prospettive di carriera universitaria e lavorativa impedite dall’evento lesivo. Invero, l’onere di provare la sussistenza di tale danno, incombe sulla parte attrice, la quale si era limitata ad allegare le risultanze della c.t.u. riportante i postumi invalidanti derivati dal sinistro e a provare il suo pregresso buon rendimento scolastico. Il mancato riconoscimento del danno da perdita di chance (rectius: la contraddittoria e insufficiente motivazione sul punto) è stato motivo di ricorso in Cassazione da parte del danneggiato.
In diritto
Il danno da perdita di chance lavorativa derivante da menomazione dell’integrità psicofisica non è facilmente quantificabile qualora si tratti di minore non percettore di reddito. La contingente assenza di guadagni determina infatti un’incertezza sulla qualificazione e quantificazione delle varie voci di danno difficilmente superabile.
Non stupisce quindi che, nel caso di specie, la Corte di Cassazione abbia confermato quanto statuito dalla Corte di Appello, negando il risarcimento del danno da perdita di chance in quanto non sufficientemente provato; l’incapacità lavorativa, proprio perché riferita ad un futuro incerto, si caratterizza come perdita di chance la cui risarcibilità è ammessa solo a condizione che sia provato, ancorché attraverso presunzione, che se il soggetto non avesse subito il danno avrebbe conseguito una realizzazione economica migliore.
L’incapacità lavorativa
Il danno alla salute (o danno biologico) è ormai considerato come lesione dell’integrità psicofisica della persona, bene giuridico costituzionalmente riconosciuto (art 32 Cost.). Invece, l’incapacità di produrre ricchezza, costituisce un’ulteriore conseguenza del danno e integra un profilo di pregiudizio differente, a carattere patrimoniale. A tale conclusione si è pervenuti successivamente, in quanto ab origine il danno alla salute veniva collocato nei danni patrimoniali in quanto, ciò che veniva risarcito, era il riflesso di tale danno sulla capacità reddituale della vittima. La pretesa attribuzione di un valore economico al bene-salute, parametrato al reddito prodotto dalla vittima prima del fatto illecito, unicamente in virtù dei riflessi lavorativi-reddituali discendenti dall’integrità psicofisica, generava forti distorsioni, in particolare nel caso di soggetti minori non percettori di reddito: si iniziò infatti a ricorrere ad escamotages quali il c.d. “reddito figurativo” o la categoria dell’“incapacità lavorativa generica.
Si è tuttavia poi giunti alla connotazione del danno alla salute come lesione dell’integrità psico-fisica risarcibile in re ipsa. Da quel momento la diminuita capacità lavorativa ha assunto rilevanza autonoma: si tratta di un pregiudizio a carattere patrimoniale che spesso, ma non necessariamente consegue al danno biologico. Ove si sia in presenza di un accertato danno biologico, si può spesso riscontrare una derivante diminuzione di capacità lavorativa che può a sua volta essere alla base di una perdita reddituale: il rapporto tra danno biologico e diminuita capacità di guadagno si pone in termini ipotetici, ove il primo è condizione necessaria ma non sufficiente ad implicare il secondo, la cui sussistenza è dunque meramente eventuale. Il termine intermedio di tale rapporto sarebbe dato dalla capacità lavorativa, definita generica proprio in quanto attitudine generale alla produzione di reddito , estranea rispetto al lavoro certo e concreto che qualificherebbe invece la capacità di guadagno (definita al contrario come “capacità lavorativa specifica”). Non a caso, tale categoria di capacità era stata ascritta al danno non patrimoniale: il connotarsi come mera attitudine generale al lavoro faceva sì che questa rientrasse, più propriamente, nel danno biologico, anch’esso parimenti a-reddituale. La progressiva evoluzione del danno biologico ha tuttavia reso superflua la categoria dell’incapacità lavorativa generica.
Per tali motivi, nel caso del danno al minore, l’unico riflesso in termini di capacità lavorativa che potrebbe derivare dal danno biologico, assume la connotazione di perdita di chance.
Perdita di chance
Le pronunce che distinguono fra incapacità generica e specifica hanno, come si è detto, una rilevanza ormai residuale, e la sentenza in commento avalla tale orientamento.
Tuttavia il danno da incapacità lavorativa può essere identificato come perdita di chance, inquadrata talora nella categoria del danno patrimoniale, che sia un lucro cessante o un danno emergente, talaltra nella categoria, opposta, del danno non patrimoniale. In realtà, la perdita di chance si atteggia diversamente a seconda che ad esser lesa sia un’occasione riferita ad valore patrimoniale o meno. Nel caso di specie “le chances che si assumono perdute attengono alla futura attività lavorativa del soggetto danneggiato a causa dei postumi permanenti della lesione della salute », quindi « il danno c.d. da perdita di chance si configura come danno patrimoniale futuro, perciò diverso ed ulteriore rispetto al danno alla salute, a carattere invece non patrimoniale”.
Come si è sopra accennato, nel caso del minore non precettore di reddito, la situazione si complica.
Nel caso del minore che voglia ottenere i danni derivanti dalla perdita di “chance” – che, come concreta ed effettiva occasione favorevole di conseguire un determinato bene, non una mera aspettativa di fatto ma un’entità patrimoniale a sé stante, giuridicamente ed economicamente suscettibile di autonoma valutazione – ha l’onere di provare, pur se solo in modo presuntivo o secondo un calcolo di probabilità, la realizzazione in concreto di alcuni dei presupposti per il raggiungimento del risultato sperato e impedito dalla condotta illecita della quale il danno risarcibile deve essere conseguenza immediata e diretta.
Con la precisazione che quando, come nel caso di specie, le chances che si assumono perdute attengono alla futura attività lavorativa del soggetto danneggiato a causa dei postumi permanenti della lesione della salute, il danno c.d. da perdita di chance si configura come danno patrimoniale futuro, perciò diverso ed ulteriore rispetto al danno alla salute, a carattere invece non patrimoniale. Pertanto, la sola dimostrazione dell’esistenza di postumi invalidanti non è sufficiente a far presumere anche la perdita della possibilità di futuri guadagni o di futuri maggiori guadagni, spettando al danneggiato l’onere di provare, anche presuntivamente, che il danno alla salute gli ha precluso l’accesso a situazioni di studio o di lavoro tali che, se realizzate, avrebbero fornito anche soltanto la possibilità di maggiori guadagni. L’unico accenno contenuto nel ricorso ad una non meglio precisata “conferma” da parte del preside della scuola circa il buon rendimento scolastico della ragazza è privo di specificità, poiché la ricorrente non chiarisce né il mezzo di prova testimonianza o documento – cui fa riferimento né il contenuto ed il luogo di reperimento del dato probatorio nel fascicolo di parte o d’ufficio.